giovedì 31 maggio 2012

Il centrodestra, la rete e l’italica ventata libertaria


Fino ad un decennio fa, il maleodorante ristagno che caratterizza da sempre il panorama della dirigenza politica nazionale è stato questione, per così dire, inevitabile. L’informazione, trasportata da quotidiani e tiggì, viaggiava dal centro verso la periferia e qui veniva assorbita da microcosmi, per lo più individuali o familiari, che agivano come altrettanti corpi neri, che poco o nulla irraggiano di quanto ricevono. La tradizionale ritrosia nel parlare delle proprie convinzioni politiche (in particolare nei luoghi di lavoro ed in particolare se non si era di sinistra) e la oggettiva difficoltà, soprattutto in provincia, di dare vita a centri di aggregazione al di fuori delle sedi dei partiti ha consentito a questi ultimi di governare a lungo i meccanismi di formazione dell’opinione pubblica e di selezione dei leader.

Oggi, con Internet, chiunque può potenzialmente parlare con chiunque altro di qualsiasi cosa e sentirsi, fatto importantissimo, non più solo nelle proprie convinzioni. Già, perché quando la paura dei comunisti agitava le notti di milioni di monadi sparse sul suolo patrio, la possibilità di scelte politiche alternative alla DC era letteralmente castrata dal timore di sprecare il proprio voto regalandolo a qualche formazione o movimento del cui seguito si ignorava l’entità. Preoccupazioni, queste, che ai nostri giorni, con tutto questo gran parlare sulla rete, fanno parecchio sorridere.

Certo, molto di confusionario e risibile si può facilmente incrociare navigando sul Web, ma è solo questione di tempo prima che la qualità delle opinioni espresse cominci ad evolvere, grazie ai reciproci aggiustamenti e, soprattutto, al diffondersi di centri di competenza (siti a tema economico, ad esempio) in grado di fungere da aggregatori. E sarò pure ingenuo, ma questa cosa della condivisione su Internet ha tutte le potenzialità per poter creare quel pluralismo di vedute che il sistema educativo pubblico, per tradizione gonfio di ideologia sinistroide, ha da sempre caparbiamente scoraggiato (tre generazioni di italiani cresciuti a culto dello stato e del welfare rendono oggi difficile anche solo avviare ragionamenti pubblici sulla possibilità di costruire una società più libera).

Il fatto che la rete abbia sinora partorito il topolino Pizzarotti (con tutto il rispetto, naturalmente, ché la faccia da bravo ragazzo la tiene proprio) destinato, con ogni probabilità, ad essere spazzato via dal tornado dei guai finanziari parmensi, non può certo significare il tradimento delle attese che il fermento internettiano sta creando. La demagogia viaggia via computer esattamente come fa via televisore o carta stampata e, da quel punto di vista, i coloratissimi scenari di cartapesta costruiti da Grillo non si differenziano certo da quelli eretti alle spalle di un Vendola o di un Di Pietro. Del resto, l'attuale e ben più blasonato Ministro dello Sviluppo Economico, che notoriamente è stato incoronato dalla fregola platonica in salsa razionale di pochi saggi e non dalla carica emotiva di molti, è in toto evaporato a poche ore dalla sua nomina. Le toppe, si sa, sono in agguato ovunque.

Ciò detto, l'implosione del PdL, auspicata proprio in questi giorni dall'italico Web, potrebbe davvero non essere una tragedia. In fin dei conti, è proprio da una consistente fetta dell'elettorato del centro destra che, tradizionalmente, nasce l'insofferenza nei confronti dei riti del potere e dell'immobilità politica che essi sono chiamati a custodire. Anzi, è proprio questa idiosincrasia per le incrostazioni centralistiche che differenzia il riformatore vero (che è sempre conservatore illuminato) dal pagliaccio in cerca di prebende pubbliche o dal vanesio che ama sfoggiare il bodyguard durante lo shopping.

Ovvio che i fenomeni spontanei vanno in qualche misura incanalati entro un argine riconoscibile per poter essere di una qualche utilità politica, ma è altrettanto vero che sperare di costringerli nella camicia di forza di preesistenti strutture organizzative, nelle cui plance di comando gli ultimi protagonisti di lontane stagioni in perdita tengono la barra puntata in direzione di una ben remunerata nostalgia, è un suicidio. Da questo punto di vista, la mummificante rincorsa di Casini (l’eterno fanciullo da sempre allergico alla forza di gravità) in nome della vaga formulazione di “moderatismo”, in questi giorni così spesso evocata, può solo suonare anacronistica (ma credo si possa dire di peggio) a chi ha in mente, per quotidiana esperienza (e talvolta anche sofferenza), idee ben precise su quale dovrebbe essere la misura della presenza statale ed è alla disperata ricerca di adeguata rappresentanza.

La vittoria alle prossime urne si giocherà come non mai su temi di libertà e tassazione, ma, soprattutto, sul probabilissimo fallimento dell’ennesimo tentativo centralista di imporre non solo provvedimenti incomprensibili e pasticciati ed illiberali, ma anche una visione sfacciatamente paternalistica del potere. Il blocco di centrodestra ha, di fronte a sé, praterie di consenso sconfinate (e deluse da ciò che avrebbe dovuto essere, ma non è stato): per prepararsi alle prossime sfide esso deve avere il coraggio di rinnovare radicalmente i propri quadri ed attrezzarsi per pescare dal ricchissimo bacino dell’associazionismo libertario.

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