martedì 28 febbraio 2012

I giovani: vittime di sé stessi (spesso) ed assicurazione sulla vecchiaia dei soliti politicanti (sempre)

La categoria dei giovani senza futuro è diventata una specie di catino rituale, nel quale ciascuno è chiamato a versare, di tanto in tanto, qualche lacrima: la tenuta dei contesti sociali passa anche da questo tipo di cose. Il pluridecennale e collettivo abbeverarsi alla vigorosa coppa dell’eroismo partigiano svolge (in certi ambiti, per lo meno) una analoga funzione aggregante. Noi umani funzioniamo così. E guai a mettere in discussione il marmoreo nitore della guerra di liberazione, oppure a discriminare tra virgulti che fanno andare la testa e le mani e virgulti che preferiscono, per così dire, muoversi al traino. Ché i totem sono totem ed è sempre piuttosto consigliabile prenderli alla lettera (a meno di non volersi impelagare, chessò, in una ventennale campagna e costosissima contro le procure di mezza Italia).

A fissare quei minacciosi aggeggi nel fertile terreno dell’immaginario popolare, sono, il più delle volte, dei volgari ciarlatani, abilissimi nel rivendicare un rapporto privilegiato con gli dei. Questo si sa e si sa pure che, per solito, essi arrivano vestiti di stracci e se ne vanno da commodori (quando non ci rimettono la testa, naturalmente). E siccome in Italia non ci facciamo mancare proprio nulla, infiniti sono, anche da noi, i sacri parolai in continua fuoriuscita e baldante dalla gigantesca cornucopia del fancazzismo nazionale. Mantenere vivo il mito della disperazione giovanile significa, per costoro, coltivare in serre nebbiose fragili germogli ed insicuri, addestrandoli alla convinzione che avere vent’anni sia la peggiore delle sfighe. Un perfetto punto di partenza per proporsi come ascensore verso il paradiso. E, del resto, quando ancora la follia speculativa a stelle e strisce covava nascosta sotto le candide coltri di bilanci bugiardi e nessuno poteva immaginare lo sfacelo che ne sarebbe seguito, i gran sacerdoti nostrani già si baloccavano con la fiaba irresponsabile dell'impossibile quarta settimana delle famiglie italiane (nel frattempo, nelle curate sale di agriturismi ed hotel strapieni, papà e mamme si chiedevano se magari non avrebbero fatto meglio a restare a casa).

Lo spargere allarmismo a piene mani (magari dai salotti compiacenti di Ballarò o della Annunziata o di Fazio) si è dimostrata (e continua a dimostrarsi) arma efficacissima per garantire a menti del tutto ordinarie la conquista ed il mantenimento di privilegi inauditi. Del resto, l'elevato tasso di mediocrità della nostra classe dirigente spiega pure perché, da noi, politica faccia ossessivamente rima con redistribuzione: per compulsare il tasto della divisione di una calcolatrice non ci vuole, infatti, un visionario alla De Gasperi (od alla Berlusconi, se è per questo) ed anche comuni doti di ragioniere certo ridondano. Al massimo, occorre tenere bene il conto delle clientele, ma a ciò sono comandati i portaborse. Di sicuro, c’è molta più politica nell’idea pazza del ponte sullo Stretto che nell’intrico in continua espansione (fertile sottobosco per banali arruffapopolo) di agevolazioni, detrazioni, esenzioni, cumuli, perequazioni e via dicendo.

Per tornare al tema che ci occupa, da Ronald Reagan abbiamo imparato che è meglio non aprire la porta al rappresentante del Governo che si presenta a casa nostra chiedendoci in cosa può esserci utile, magari allungandoci l’insultante cioccolatino del buono palestra o sventolando davanti al nostro naso la ripetuta promessa di nuovi, inutili centri di aggregazione giovanile.

Ma c’è un'altra presenza che i ragazzi farebbero bene a ricacciare a forza in strada: la barzelletta del diritto agli studi superiori a prescindere, indipendente, cioè, dalle effettive capacità dei singoli (e dal loro background formativo). Una bugia nata con il sessantotto (delirante fusione di invidia sociale e voglia di fare casino) e lentamente trasformatasi in banale questione di moda (come la mutanda o la vacanza in tenda a Riccione). Al punto che, oggi, masse amorfe e poco dotate (che un tempo uscivano dal sistema con la terza media) ingolfano i banchi delle Università, sottraendo risorse preziose alla educazione delle menti migliori e ricevendo spesso la medesima formazione che avrebbero potuto ottenere, in meno tempo e con minor spesa, con un corso professionale serio. Del resto, non può ritenersi normale che chi non è in grado di sommare due frazioni o di mettere su carta tre righe dotate di un qualche senso possa seriamente ambire ad un diploma di laurea. Inutile, poi, meravigliarsi se gli atenei nostrani sono difficilmente rintracciabili nelle classifiche mondiali del settore.

Oltre al demenziale abbassamento della soglia d’ingresso all’accademia, un altro fattore ha finito per ritorcersi contro gli italici virgulti in cerca di futuro: il mito della leadership. La pluridecennale telenovela del manager di successo, abilmente proiettata sullo sfondo di giovani immaginari ed ambiziosi, ha finito con l’indirizzare le scelte di troppi verso virtuali dorati (e parcelle scolastiche pesanti), al di là dei quali erano (e sono) spesso in attesa roboanti etichette anglofone, a nascondere banali funzioni burocratiche o, addirittura, di segreteria. Lo spingere così tante verdi speranze ad affidare il proprio domani ai vacui paradigmi e farlocchi della scienza dell'organizzazione (gigantesca forgia di irritanti ovvietà e sgangheratissime matrici) ha contribuito a riempire le aziende di frustrazione ed ha reso il territorio orfano di ben più retribuiti (ed appagati) idraulici, elettricisti, falegnami e via lavorando.

Sempre per rimanere in tema di scelte dubbie, conviene dedicare un pensierino a coloro i quali decidono coraggiosamente di inseguire la passione e si imbarcano in percorsi di studio di assoluto profilo ma, per così dire, di nicchia e di dubbio sbocco (in particolare, di questi tempi). A costoro va senz’altro rivolta totale ammirazione, ché rincorrere il cuore anziché la panza distingue l’uomo dall’animale. Ma è un sentimento, questo nostro, vincolato alla manifestazione, da parte degli incalliti sognatori, di analogo coraggio nel momento in cui il mercato dimostrerà (prevedibile verdetto) scarso interesse per le loro alte ambizioni intellettuali. Non è difficile vedere giovani (o meno giovani) laureati in rare facoltà umanistiche e preziose allineare, arrabbiati, tra le fila del precariato pubblico. Ecco, questa cosa fa irritare anche noi, perché essi finiscono con il pretendere protezione da chi, più prosaicamente, ha privilegiato il buon senso alla poesia, anche a costo di sacrificare le proprie aspirazioni più profonde.

Riassumendo. Il momento non è dei migliori, ma possiamo garantire che, se siamo a questo punto, lo dobbiamo prevalentemente, oltre ad alcuni aspetti poco edificanti di normale tecnica bancaria, anche a chi, per professione, ha strumentalizzato a lungo i lati peggiori del carattere nazionale, trasformandoli in altrettanti arnesi di lotta politica ed in fucina di debito pubblico. Esternazioni di indignazione per il triste destino dei nostri giovani si odono ad ogni momento della giornata: sono balle e servono unicamente a creare i presupposti della propria esistenza da parte di una classe politica inetta (chi ha dimostrato doti di dinamismo adeguate è stato perseguitato per vent'anni da costoro ed ancora oggi è scandalosamente inseguito da una ideologia cieca, annidata nella mente annebbiata di magistrati fuori del tempo). Purtroppo, i ragazzi sono spesso vittime di sé stessi e delle mode, finendo in molti casi per perdere tempo e denaro per ottenere niente più che semplici qualifiche professionali. Chi merita veramente istruzione di ordine superiore, invece, è costretto a scendere a patti con la scarsa qualità del servizio universitario, derivante dalla sua massificazione. In molti casi, i giovani inseguono false promesse di futuri professionali da musical hollywoodiano.

Conclusioni. Chi si affaccia ora alla vita adulta, deve evitare di cadere nelle trappole sparse da volgari lupi travestiti da nonnette. Nel suo complesso, il sistema dovrebbe tornare a considerare l'istruzione universitaria con il dovuto distacco, trovando il modo di restituire dignità alle professioni manuali ed evitando di criminalizzare a priori coloro i quali scelgono di intraprendere (fare fortuna non significa derubare qualcun altro delle sue opportunità: questa frottola è stata il mantice dell'incendio comunista). Tutti insieme, infine, dovremo sbarazzarci definitivamente dell'attuale generazione politica di falliti e pretendere dallo Stato gli spazi che ci ha indebitamente sottratti (soprattutto per mezzo di livelli di tassazione assassini). Ciò è quello che dobbiamo a noi stessi ed ai nostri ragazzi. Una volta ripulito l'orizzonte, possiamo solo augurarci che gli italici virgulti di talento siano, oggi, in numero sufficiente a coagulare intorno a sé le energie del Paese, per ridare a quest'ultimo una qualche, dignitosa chance. Ci sentiamo, da ultimo, di consigliare la lettura del testo: “Laboratorio Israele”, recentemente uscito da Mondadori, che ci pare colga molto bene lo spirito che consente a quella piccola, ma grandissima Nazione di essere, in molti contesti, faro per il mondo (quello serio), soprattutto grazie alle proprie giovani leve.

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